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La vergogna va ribaltata

Gisèle Pelicot: non vittima, ma pioniera



"La honte doit changer de camp"


"La vergogna va ribaltata" ha detto Gisèle Pelicot, spiegando perchè non volesse cambiare il suo cognome, il cognome dell'uomo, del marito che si è servito di lei e del suo corpo, dandolo in "pasto" a più di 50 uomini che hanno abusato di lei in stato incosciente, dopo essere stata drogata ripetutamente dal medesimo. Non vuole riprendere il suo cognome da nubile, perchè "Pelicot est le nom de famille de mes enfants et petits-enfants"("pelicot è il nome dei miei figli e dei miei nipoti"). Lei che non vuole che siano loro e sia lei stessa a vergognarsi di portare quel cognome, ma che sia Dominque, l'uomo che l'ha fatta stuprare a sua insaputa per 10 anni e che ora ha ricevuto il massimo della pena per stupri aggravati (20 anni).


Ma di che vergogna stiamo parlando?

Sul quotidiano Nazionale, la giornalista Monica Peruzzi parla di una vergogna che "per la prima volta... Ha assunto le sembianze degli aggressori, come è sacrosanto che sia."

Una vergogna, frutto dei sensi di colpa con cui veniamo ingozzate fin da bambine, che crescendo si fa grande, smisurata, pesante da portare sulle spalle e imbarazzante da mostrare.


La vergogna di essere una donna stuprata, la sapete definire? La sapete immaginare? Io che ho avuto la fortuna di non averla mai provata, me la immagino come un'immensa lettera scarlatta sopra la maglietta. Mentre ce la appuntiamo, intimorite dalla consapevolezza che se non lo facciamo noi, sarà la società, saranno gli altri e le altre a farlo, sentiamo il dolore della spilla pungerci sul petto, sul nostro corpo che in quel momento non è più nostro, ma forse non lo è mai stato, certamente non lo è mai stato.

La voce di quella A su di noi risuona più o meno così: "se l'è andata a cercare". E l'eco continua nella ricerca dettagliata dei vestiti, delle abitudini, dei rapporti, comportamenti e sguardi che ci vedono colpevoli.

Sembra assurdo eh? Non lo è.

Susan Brownmiller, una delle prime saggiste a teorizzare lo stupro come strumento di controllo patriarcale, sottolinea come la vergogna sia un mezzo per isolare le vittime. Nel suo saggio Against Our Will: Men, Women, and Rape definisce lo stupro non solo come atto individuale, ma come meccanismo di controllo universale e collettivo, nonché sistemico sulle donne da parte del patriarcato. In che modo?

Ogni nostro gesto è sotto una lente d'ingrandimento che ci fa sentire sbagliate e in colpa per essere state stuprate. Perchè è di questo che si tratta: di colpa.


Hester, protagonista in La lettera scarlatta di Nathaniel Hawthorne, è condannata a portare sul petto la lettera "A" come simbolo del suo peccato di adulterio. La vergogna è pubblica, resa visibile e perpetua dal marchio.

L'adulterio mi direte voi non è come essere stuprate. Certo! Ma la vergogna di Hester è la stessa di Giselè, è la stessa di una donna che viene picchiata dal marito, è la stessa di una ragazza che viene molestata verbalmente dal suo insegnante, è la stessa di una bambina che viene molestata fisicamente da un parente o dal prete del paese.

E' colpa nostra!


La vergogna, come strumento del potere per una società misogina e patriarcale che vuole mantenere il controllo sulle donne, sul loro corpo e comportamento per perpetuare le disuguaglianze a sostegno di quella gerarchia che rimarca il sistema di potere in cui gli uomini sguazzano, ha l'aspetto della colpa.


Il corpo è il campo di battaglia dove tutto ciò avviene.

Nel corpo, come soggetto sociale, culturale, economico ed etico, la sessualizzazione perpetua dall'abuso alla colpa. La nostra società di occidentali perbene, dove "il patriarcato è finito con la riforma del diritto di famiglia del 1975" (ci dice senza alcuna vergogna il nostro Ministro dell'Istruzione) ahimè si nutre quotidianamente del meccanismo della cultura dello stupro.

E visto che cresciamo a pane, unicorni e tabù sulla sessualità, dove per noi ragazze parlare di masturbazione è peccato immorale, mentre per i ragazzi è motivo di orgoglio, la nostra sessualità diviene solo affare dello Stato e non nostro: un affare sacro e materno o scandalo e pornografia.

Sapere di essere state stuprate ci riporta al giudizio che pesa sulla nostra testa da quando siamo al mondo: prostitute o donne-angelo?


Cosa comporta tutto ciò?

Che molte vittime non denunciano lo stupro, le molestie, lo stalking, ogni forma di violenza, su di noi, sui nostri corpi, perchè finchè rimane nascosto è lontano da ogni tipo di giudizio e il nostro corpo resta affar nostro e non di pubblica amministrazione.

Oltre alla paura di essere giudicate, vi è sicuramente la mancata fiducia nella giurisdizione che spesso, impregnata anche essa della cultura dello stupro, ci vede intraprendere percorsi lunghi e faticosi, senza raggiungere un verdetto giusto e gratificante.

Non solo: dopo lo stupro c'è il pericolo di un femminicidio, una volta denunciato (ma per questo dovremmo aprire un altro articolo).


Cosa rende allora Gisèle da vittima a pioniera?

L'aver sovvertito i ruoli di opressore-oppresso in relazione alla vergogna, esponendosi, aprendo le porte del suo tribunale al mondo e trasformando così il marchio della lettera scarlatta in un simbolo di resilienza. L'essersi svestita di quella colpa che ci portiamo appresso come fosse cucita sulla nostra pelle, l'aver definitivo lei cosa fosse il suo corpo e la sua identità e l'aver trasformato il suo caso da individuale a universale. Quella responsabilità collettiva di cui la Arendt andrebbe orgogliosa oggi.



"Ecco perché, dopo giorni di testimonianze da parte dei suoi aguzzini, indossava una sciarpa di seta con una stampa creata dalle donne aborigene in Australia e inviatale come gesto di solidarietà. Era solo uno dei tanti dettagli che davano al suo aspetto un potere tale da poter trascendere il processo e diventare un catalizzatore per il cambiamento.

Nella sua familiarità, conteneva moltitudini. Nel suo riflesso incondizionato, le donne vedevano se stesse". Sono le parole di Vanessa Friedman in un articolo del New York Times dal titolo "Il volto del coraggio"


La giornalista Friedman parla di Gisèle come di una pioniera per il femminismo e per tutte le donne vittime di violenze, analizzando il suo corpo come soggetto politico non più in relazione alla colpa, alla vergogna, bensì all'attivismo, alla disobbedienza, alla rivoluzione.


Grazie Gisèle

da tutte, tutti, tuttu noi





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